Se sei una donna, nubile o sposata, che si sente chiamata al presbiterato o desidera fare una chiacchierata per un confronto, può contattare direttamente la nostra Madre Raffaela (i contatti li trovi nella pagina “Missioni italiane”
DIBATTITO STORICO – ESEGETICO SUL PRESBITERATO ALLE DONNE
PROSPETTIVA STORIA: IL RUOLO DELLA DONNA NELLA CRISTIANITÀ’ ANTICA
Testimonianze storiche
In un epoca come la nostra che ha riconsiderato il ruolo della donna nella quotidianità, il problema dell’ammissione delle donne al sacerdozio ha suscitato un particolare interesse, tanto da interrogare tante realtà storiche e più giovani sulla possibilità di ordinare anche le donne. Nonostante nel 1976 la Sacra Congregazione per la dottrina della fede, nella Chiesa romana, con la Dichiarazione “Inter insigniores” ha ribadito la contrarietà all’ammissione delle donne al sacerdozio e all’episcopato, si sono levate voci di studiosi sviluppando un vivace dibattito.
La maggior parte degli studiosi si sono rivolti al mondo antico. In esso il Magistero romano ha ritrovato le motivazioni della sua opposizione: Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei dodici, per cui la Sua esplicita volontà era di conferire soltanto all’uomo il potere sacerdotale di governare, insegnare e santificare. In realtà credo che questa posizione ufficiale della Chiesa romana è la conseguenza di un’antropologia legata al mondo antico ed impossibile da accettare dalla sensibilità moderna. É importante contestualizzare oggi un’antropologia che risente lo stato di inferiorità della donna nell’ambiente greco, romano e palestinese che vide nascere il cristianesimo.
Bisogna tener conto di alcuni episodi e fenomeni che presentano l’ammissione delle donne al sacerdozio come un problema vivo sin dai primi secoli cristiani. Tuttavia questa questione diventa un problema solo se le ricostruzioni storiche interagiscono con due domande fondamentali: se le donne siano mai state validamente ordinate e se le donne debbano essere ordinate oggi.
Prima di proseguire bisognerebbe aprire una parentesi per approfondire alcuni termini che oggi risulterebbero inevitabilmente ambigui:
- APOSTOLE: in At1, 21-22 Maria Maddalena ha tutti i criteri che i discepoli si danno per eleggere qualcuno al posto di Giuda; ella appare spesse volte come la prima di una serie di “tante altre” discepole di Gesù che ebbero varie funzioni. Il cap.16 della Lettera ai Romani, al v.7 parla di Giunia che venne detta apostola assieme al marito Andronico; al v.6 e al v.12 si parla rispettivamente di Maria di Trifena, Trifosa e Perside che condividono con Paolo la “fatica apostolica”. Anche Tecla, protagonista degli apocrifi, è detta “apostola”.
- PROFETESSE: la loro presenza non è solo nell’A.T.: Maria, sorella di Aronne e Mosè (Es15, 20; Nm12, 2); Debora (Gdc4, 4-14; 5); Culda (2Re22, 14-20; 2Cr34, 22-28); Noadia (Ne6, 14); una profetessa anonima (Is8, 3). Il N.T. menziona Anna (Lc2, 36); le quattro figlie di Filippo (At21, 8-9); Paolo permette alle donne di profetizzare (1Cor11, 2-16). Eusebio parla di una certa Ammia di Filadelfia (Hist. Eccl. V,17,4); Giustino si riferisce alla profezia di Gioele per giustificare la presenza di donne conil carisma dello Spirito (Dial.88, 1), che pervade il dono dell’insegnamento (39, 2); Ireneo attesta la presenza di profetesse (Adv. Haer. III,11,9); Tertulliano riconosce alle donne il diritto di profetare (Adv. Marc V,8,12). Quindi era un dato ovvio. Avevano il dono della parola (1Cor14, 4), di esortazione (14, 3), di consolazione, di rivelazione e conoscenza (14, 30). Nel II sec. alcuni movimenti eterodossi, come il montarismo o lo gnosticismo, vedevano le donne in ruoli di primo piano e attivi (Ippolito in Conf.8, 19 parla di Massimilla e Priscilla; anche Ireneo parla di donne che consacravano l’offerta insieme allo gnostico Marco – Adv. Haer. I,13,2-3.).
- ORDO VIRGINUM/VIDUUM: le vedove sono tra i gruppi ecclesiali più antichi. I primi secoli ne testimoniano la presenza: tramite una celebrazione che era chiamata ordinatio venivano incorporate nell’Ordo.
- DIACONESSE: non potendo negare la loro presenza nella storia, il dibattito contemporaneo si è preoccupato di definire se la loro sia stata una vera ordinazione o solo una istituzione e se fossero da associare alla gerarchia ecclesiastica o a semplici mansioni diaconali. Il primo a chiamare cosi una donna è Paolo (Rm16, 1-2), che si riferisce a Febe che è a capo della Chiesa di Cencre. Plinio il Giovane in una lettera a Traiano (Ep.X,96) parla di due donne che si chiamavano ministrae (in latino si tradurrebbe in diakonoi). Il Pastore di Erma parla di Grapte che ha il ruolo di esortazione verso vedove e orfani (Vis.2,4,3). In ambito siriaco la presenza di diaconesse sono attestate dalla Didascalia degli Apostoli (III,12). Epifanio di Salamina parla di diaconesse come di un ordine (Tagma Ekklesiastikon: Adv. Haer. 79,3-4). Le Costituzioni apostoliche (VIII) ci informano che le diaconesse ricevono un’imposizione delle mani e precisi compiti nell’amministrazione del battesimo alle donne e nella catechesi.
- EPISCOPAE: le episcopae appartengono alla cristianità occidentale. La più famosa è Theodora episcopa nella cappella di S. Zeno nella chiesa di Santa Prassede a Roma. Anche Brigida d’Irlanda è descritta come vescova che fu ordinata con il rituale per gli abati. Una recente scoperta nelle catacombe napoletane ha portato a conoscenza due figure: Bitelia e Cerula, raffigurate con un pallio.
- PRESBYTERAE: Firmiliano di Cesarea descrive una donna che si riteneva spinta dallo Spirito, che impartiva battesimi e celebrava l’Eucarestia, con forte seguito di popolo durante una persecuzione locale del 235-238. I numerosi decreti che vietavano determinati ruoli alle donne fanno dedurre le funzioni che svolgevano: il Concilio di Nimes del 394 si oppone ad assumere donne nel “ministero levitico” negando tali ordinazioni ed escludendole per il futuro; all’inizio del IX sec. il vescovo di Basilea legifera che le donne non devono avere accesso all’altare; nel X sec. le presbyterae spariscono dalla scena ecclesiastica. Non sono conservati rituali di ordinazioni di presbitere, ma il Pontificale romano-germanico del X sec., all’ordo 36 dice che le donne diacone presbitere benedette lo stesso giorno degli uomini dovevano essere ordinate allo stesso modo dei presbiteri e diaconi. Trattandosi di rituali erano usati in più di un luogo.
- ABBATISSAE: le abbadesse erano considerate diacone in quanto svolgevano le medesime funzioni. Anche per loro valeva il termine di “ordinazione”. Numerose testimonianze riportano alcuni monasteri attorno al IX – X sec., probabilmente sia maschili che femminili, che avevano normalmente a capo una badessa. Esse ascoltavano le confessioni dei peccati, avevano giurisdizione su monaci e monache e sui laici che vivevano nel territorio appartenente al monastero. Il rito mozarabico ha due riti separati per abbadesse e abati: entrambi iniziano con la vestizione in sagrestia della mitria sul capo, le preghiere sono un pò diverse ma entrambi ricevono dal vescovo il pastorale e copia della regola con il bacio di pace. Tra le preghiere previste, quella redatta al femminile (quindi solo per le abbadesse) si riferisce a Miriam, sorella di Mosè. Queste donne ascoltavano le confessioni delle loro monache (cfr. la Regola di Donato e quella di Balberto).
Ritornando ora, agli episodi di cui bisogna tener conto per una seria ricerca storica in questo dibattito contemporaneo, merita, secondo me, una particolare attenzione una epistola di papa Gelasio I (492-496). Egli nel 494 indirizza una lettera ad universos episcopos per Lucaniam, Brutios et Siciliam constitutos, costituita da 27 decreti in cui il vescovo di Roma affronta questioni che riguardano anche l’organizzazione interna delle comunità. Quattro decreti parlano delle donne nell’ambito delle comunità cristiane e il XXVI in particolare parla del problema del sacerdozio delle donne:
“Nihilominus impatienter audivimus, tantum divinarum rerum subiisse despectum, ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur, cunctaque non nisi virorum famulatui deputata sexum cui non competunt, exhibere”.
Gelasio dunque, dichiara il disprezzo per quello che riguardava la religione cristiana circa le donne che venivano ammesse a sacris altaribus ministrare (espressione che indica senza dubbio di un servizio liturgico presso gli altari).
Subito dopo Gelasio aggiunge di aver saputo anche che le donne compivano tutte le funzioni che spettavano soltanto agli uomini e che non competono al sesso femminile. È palese quindi, che il papa volesse condannare l’abuso di vere e proprie presbitere.
Gelasio fa riferimento alla nostra questione solo all’inizio del decreto; dopo si limita a denunciarne le conseguenze dannose per la chiesa senza mai entrare nel merito della questione, cioè senza motivare scritturisticamente o teologicamente il rifiuto dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine.
É altresì palese che non si tratta di abusi perpetrati da alcune donne ma di iniziative dei vescovi.
É anche ovvio che l’estensione del fenomeno lamentato da Gelasio non si può circoscrivere alla sola Lucania, al Bruzio e alla Sicilia: egli intendeva risolvere questioni che erano state denunciate anche da una relazione che il vescovo di Ravenna (477-494), Giovanni, gli aveva mandato per sollecitarlo al riordinamento delle Chiese di diverse regioni d’Italia; è quindi probabile che questi episodi non siano fenomeni isolati (la situazione doveva essere talmente grave da preoccupare seriamente Roma), va ricordato che epistole come questa circolavano in tutte le comunità e costituivano per la gerarchia una specie di “canonicità” per affrontare problemi di ordine disciplinare e dottrinale.
Possiamo perciò accertare che sul finire del V sec. in alcune zone dell’Italia meridionale, alcune donne, ordinate dai vescovi, esercitavano un vero e proprio sacerdozio ministeriale.
Per onestà intellettuale va anche tenuto presente che l’Italia meridionale era condizionata dagli ambienti greci e bizantini, dove già a partire dal III sec. le donne esercitavano stabilmente il diaconato e alla fine del IV sec. venivano annoverate tra i clerici. Non va nemmeno dimenticato che in Oriente, soprattutto in ambiente gnostico e montanista, già dal II sec., si registrano casi di donne presbitere e vescove che la Chiesa aveva condannato.
In questo breve studio storico non posso non fare riferimento anche a delle epigrafi che rivestono una notevole importanza in relazione alla questione che sto trattando. Si tratta di meno di dieci epigrafi delle cinquantamila della cristianità antica che si conoscono e che dovrebbero far riflettere sul ruolo liturgico e sacramentale delle donne nel mondo antico. Purtroppo la storiografia cattolico-romana che parte dal principio che il sacerdozio femminile è inammissibile, ha eliminato tutte queste epigrafi che fanno riferimento al sacerdozio femminile e ha assimilato il termine “presbyterae” a donna del presbitero.
Le informazioni sul sacerdozio femminile dovrebbero essere approfondite ulteriormente in un quadro più ampio che includa anche l’iconografia. Pensiamo ad esempio agli affreschi della fractio panis nella cappella greca del cimitero di Priscilla a Roma, intorno al III sec., dove è raffigurata l’immagine di una donna in abiti sacerdotali che porta nella mano sinistra la croce e nella mano destra l’incensiere.
In particolare merita una riflessione l’epigrafe che, sul finire del V sec., nel Bruzio, a Tropea (Troppa), un piccolo centro della Calabria meridionale, riporta questa scritta:
B(onae) m(emoriae) s(acrum). Leta presbitera / vixit annos XL, menses VIII, dies VIIII / quei (scil. cui) bene fecit maritus. / Precessit in pace pridie / idus Maias
che attesta di una Leta presbyterae, defunta poco più che quarantenne, alla quale il marito aveva posto la tomba.
Alla luce di quanto emerso dalla lettera di Gelasio si può ragionevolmente ipotizzare che la Leta dell’epitaffio in questione fosse una vera e propria presbitera, una donna cioè, che svolgeva il ministero sacerdotale nella comunità cristiana di Troppa (Tropea).
Nel termine presbyterae, finora gli studiosi con influenza cattolica-romana non hanno mai fatto alcuna concessione al sacerdozio femminile, piuttosto hanno sempre visto la moglie del presbyter. Ma se Leta fosse la moglie di un presbitero perché mai il marito avere dovuto rinunciare a qualificarsi come presbyter per trasferire sulla moglie tale qualifica (non ci sarebbe alcuna ragione valida e non si ha alcun riscontro nella documentazione epigrafica)? Bisogna anche dire che ogni volta che un presbyter dispone la tomba della moglie, questa viene indicata con il termine coniux.
Un’altra presbyterae è ricordata in un’epigrafe su un sarcofago proveniente da Salona, in Dalmazia, datato il 425:
D(ominis) n(ostris) Thaeodosio co(n)s(ule) XI et Valentiniano/viro nobelissimo Caes(are). Ego Thaeodo/suis emi a Fl(avia) Vitalia per(es)b(ytera) sanc(ta) matro/na auri sol(idis) III. Sub d(ie)… .
L’epigrafe richiama il fenomeno dell’assegnazione e della vendita dei posti nei cimiteri comunitari cristiani. Tale attività era gestita prima dai fossores e successivamente da presbiteri. Stando all’epigrafe, Teodosio aveva acquistato per tre solidi d’oro un posto nel cimitero di Solona dalla presbytera Flavia Vitalia. Pertanto, anche in questo caso, ad una presbytera appartiene un compito ufficiale che nella comunità era del presbyter.
Oltre all’epistola gelasiana e alle epigrafi, la cristianità antica ha conosciuto altri casi di donne che svolgevano il servizio liturgico.
Nel 511 in Gallia dai vescovi Licinio di Tours, Melanio di Rennes ed Eustochio di Angers che indirizzarono una lettera ai sacerdoti bretoni Lovocario e Catiherno, rimproverandoli di servirsi, durante la Messa, di donne che prendevano in mano il calice e distribuivano al popolo il Sangue di Cristo. Proprio da Poitiers, una zona molto vicina ai tre vescovi, un graffito attesta lo svolgimento di un servizio della donna presso gli altari: Martia presbuteria/ferit oblata Oleari/o par(iter) et Nipote. La convergenza tra documenti letterari ed epigrafici attestano che in Gallia e nelle zone confinanti, una funzione particolare, e certo non abituale, era attribuita alla donna nell’ambito della celebrazione eucaristica.
La frequenza con cui i concili e gli autori cristiani si soffermano, sempre polemicamente, sull’ordinazione alle donne fa pensare che c’erano molti più casi rispetto a quelli attestati dalla documentazione letteraria ed epigrafica.
Tutto questo significa che la posizione assunta al riguardo dalla Chiesa antica non può configurarsi come una tradizione monolitica, ma come una realtà in cammino. Essa diventa monolitica quando si condannano le soluzioni che nel passato si sono discostate da quella ufficialmente accettata e difesa dalla Chiesa cattolica.
Dal II sec., come abbiamo visto, quindi, alcuni gruppi, condannati come eretici, ammettevano le donne al presbiterato e all’episcopato ma non necessariamente queste connotavano la loro eterodossia.
Questo è attestato in modo particolare da Attone, vescovo di Vercelli, vissuto tra il IX e il X sec.. Gli si era rivolto un sacerdote di nome Ambrogio per chiedergli come si dovessero intendere i termini presbytera e diacona della canonista antica. Egli rileva che siccome nella Chiesa antica “molta era la messe e pochi gli operai”, anche le donne ricevevano gli Ordini sacri ad “adjumentum virorum” e fu il concilio di Laodicea, della seconda metà del IV sec., a proibire l’ordinazione presbiterale delle donne. Il vescovo di Vercelli, dopo essersi soffermato sulla figura della diaconessa, ribadisce che nelle comunità cristiane antiche, non solo gli uomini ma anche le donne venivano ordinate ed erano a capo delle comunità, erano chiamate presbyterae ed avevano il compito di predicare, comandare ed insegnare: in questi tre termini è condensato il ruolo del sacramento dell’Ordine.
Questa di Attone è una testimonianza di notevole rilievo per la questione del sacerdozio femminile nell’antichità; si può convenire con il mio modesto pensiero che è davvero strano che nessuno degli autori cattolici che si è interessato del problema ne ha fatto cenno
IL MINISTERO FEMMINILE NEL N.T.
La prima cosa da tener presente è che Gesù non ha mai istituito i ministeri ordinati e non ha mai “ordinato” nessuno; è la Chiesa che evolvendosi “crea” i suoi ministri in armonia con le indicazioni di Gesù.
Nei vangeli è chiara l’assenza tra i dodici di nomi di donne (benché Gesù abbia superato di gran lunga la concezione della donna del suo tempo). Non si può dedurre il perché della mancanza di donne senza considerare le motivazioni sociologiche del tempo: sappiamo che i discepoli facevano vita comune con il Maestro; si potrebbe immaginare una convivenza simile con donne nelle circostanze del I secolo?
Tuttavia l’assenza riguarderebbe solo la cerchia più ristretta di discepoli in quanto è evidente che alcune donne appartenevano al loro gruppo e si spostavano con Gesù.
In Lc8, 1-3 ci sono tre donne che “li assistevano con i loro beni”. Questo non può certo indicare che tutte le donne si limitassero ad un sostegno economico; questo vale, forse, per quelle di cui non sappiamo il nome, ma alcune dovevano seguirlo nei suoi spostamenti (cfr. Mc15, 40-41). “Servire” è indicato con “diakoneô” che indica non solo servizi essenziali ma anche il ministero e la predicazione.
Vi sono poi i 72 discepoli inviati a coppie (Lc10, 1ss). Di questi non abbiamo i nomi e tradizionalmente li si ritiene tutti maschi: perché escludere la presenza di donne, magari accompagnate dal marito? Dal corpus paolino e dagli Atti degli Apostoli sappiamo di molte coppie impegnate nell’apostolato (in greco il maschile prevale sul femminile, tuttavia se si fosse voluto evidenziare, come elemento importante, che si trattava di soli maschi, avremmo dovuto riscontrare il termine “anêr”).
Un altro luogo comune è l’assenza delle donne all’ultima cena: sappiamo che Gesù ha celebrato una “cena pasquale”; tale cena andava celebrata con tutta la famiglia e/o il gruppo a cui si apparteneva, e Gesù è andato a Gerusalemme anche con le donne. Da Mc14, 17 è chiaro che Gesù arrivò con i dodici quando la cena pasquale era già stata preparata e nessuno riporta che le donne si fossero esentate dai preparativi o si fossero appartate in seguito.
In Gv20, 18 Maria Maddalena esegue l’incarico ricevuto da Gesù andando ad annunciare ai discepoli la Resurrezione. Il verbo “annunciare” è al participio presente, indicando così un’azione continua e ripetuta; Maria è divenuta una proclamatrice della sua esperienza.
Gv19, 23 presenta un’apparizione rivolta ai discepoli (non ai dodici); è ragionevole pensare che fosse lo stesso gruppo citato per la vicenda di Pentecoste (At1, 14; 2, 1ss); pertanto, anche l’incarico di annunciare la riconciliazione, riguarda tutti i discepoli, donne comprese. La missione è ufficialmente affidata alla cerchia più ristretta (gli Undici); essi però appaiono subito affiancati da altre figure (cfr At e Lettere).
LA DONNA NEGLI SCRITTI PAOLINI
Bisognerebbe concentrarsi esclusivamente sull’aspetto specifico del ruolo di collaborazione nell’evangelizzazione che alcune donne hanno avuto nella chiesa nascente di matrice paolina. Se ci si accinge a studiare i testi che trattano del ruolo della donna nelle prime comunità cristiane, è doveroso fare subito delle precisazioni riguardo alle fonti.
Innanzitutto si deve ragionevolmente ammettere che “l’effettivo contributo delle donne al movimento missionario cristiano delle origini rimane in larga parte perduto a causa della scarsità delle nostre fonti e del loro carattere androcentrico”.
Inoltre, se in particolare parliamo di “Paolo e le donne”, va osservato come i testi in questione, che ad una cultura moderna di uguaglianza risultano più “antipatici” nei riguardi delle donne, si trovano soprattutto nelle cosiddette lettere deuteropaoline e pastorali (Col ed Ef, 1-2 Tm e Tt). Limitando per il momento il campo ai testi paolini ormai comunemente considerati autentici (1Ts, 1-2 Cor, Fil, Fm, Gal, Rm), troviamo delle affermazioni sulle donne soltanto nella 1Cor ai capp. 7, 11 e 14 e in Gal 3,28, e comunque l’argomento non viene mai esplicitamente messo al centro della trattazione; se egli ne parla è per rispondere a domande sul matrimonio (1Cor 7), o per risolvere problemi contingenti, di carattere “disciplinare”, riguardanti cioè il comportamento delle donne nelle assemblee (1Cor 11 e 14); oppure – e qui abbiamo un brano che si staglia su tutti gli altri (Gal 3,28) – per esprimere le sovvertitrici conseguenze del battesimo che realizza l’unità in Cristo conferendo una stessa dignità alle persone, al di là delle differenze etniche (giudei e greci), sociali (schiavi e liberi) e sessuali (uomini e donne).
In altre due lettere, Fil e Rm, nelle sezioni finali, al momento delle raccomandazioni e dei saluti, Paolo nomina alcune donne per nome, attribuendo loro interessanti qualifiche, su cui sarà utile soffermarsi in vista del nostro tema specifico, a proposito cioè del loro ministero di collaboratrici nell’evangelizzazione. Un discorso a parte dovrà essere fatto per la particolare opera storiografica costituita dagli Atti degli Apostoli, dove troveremo il racconto dell’episodio riguardante Lidia.
Negli scritti sicuramente autentici di Paolo i brani che fanno più problema, specialmente se accostati tra loro, si trovano nella stessa lettera, la 1Cor. Il primo è quello in cui egli tratta dell’acconciatura delle donne nelle riunioni di preghiera (11,2-16), il secondo è quello in cui ordina alle donne di tacere nell’assemblea (14,33b-35).
Per il brano di 1Cor 11,2-16, conosciuto soprattutto con il titolo tradizionale “il velo delle donne”, la difficoltà maggiore è data soprattutto dal v. 10: δια τουτο οφειλει η γυνη εξουσιαν εχει επι της κεφαλης δια τους αγγελους; letteralmente: “per questo la donna è tenuta ad avere un’exousia (potere, autorità) sul capo a causa degli angeli”.
Tra le numerose ipotesi interpretative, una delle più convincenti è quella in cui “εξουσιαν εχειν” viene tradotto con “avere sotto controllo”, e il resto va inteso in questo senso: “per questo (quando la donna profetizza – cf. v. 5) deve avere sotto controllo la sua acconciatura”; cioè le donne quando fanno interventi pubblici nella comunità (profetizzano o pregano in assemblea) devono tenere un abbigliamento e un’acconciatura decorosa, in particolare devono coprirsi la testa. Questa indicazione di Paolo non avrebbe soltanto l’intenzione di regolare il modo di comportarsi (e di abbigliarsi) delle donne, ma soprattutto di contrastare un tentativo di annullare quelle differenziazioni sessuali – di cui la capigliatura è manifestazione tra le più immediate – insite nella natura stessa; in un ambiente di facili costumi come quello della città di Corinto, quest’uso poteva favorire una certa indistinzione e promiscuità, con gravi e prevedibili conseguenze, sia sul versante morale che su quello della testimonianza.
È per questo, molto probabilmente, che Paolo richiede che la donna che profetizza non deve perdere ciò che per la cultura del tempo rappresenta un contrassegno forte di femminilità. Ma richiedendo questo, allo stesso tempo egli ammette chiaramente che la donna possa parlare pubblicamente nell’assemblea (cf. v. 4); ciò è da tenere presente, quando si va ad interpretare nel capitolo 14 la celebre frase: αι γυναικες εν ταις εκκλησιαις σιγατωσαν; “le donne nelle assemblee tacciano” (14,34; rafforzato subito appresso con: ου γαρ επιτρεπεται αυταις λαλειν; “infatti non è permesso loro di parlare”; e al v. 35: ισχρον γαρ εστιν γυναικι λαλειν εν εκκλησια; “è infatti vergognoso per una donna parlare nell’assemblea”). Come risolvere il problema?
Il fatto che alcuni codici antichi pongono i vv. 34-35 dopo il v. 40 (nessuno però li omette) è segno che hanno creato delle difficoltà nei lettori (e nei copisti). Non è però sufficiente questo indizio per dedurre un’interpolazione post paolina. Accettando questa ipotesi, essa naturalmente risolverebbe il problema alla radice e scagionerebbe di fatto l’apostolo da due grandi accuse: da una parte dall’incoerenza con se stesso (per quanto scritto poco prima al cap. 11) e dall’altra da una disdicevole coerenza con la mentalità corrente sia nel mondo giudaico che in quello ellenistico-romano, decisamente discriminante nei confronti delle donne.
Una soluzione da non scartare a priori è quella che sottolinea la diversità di soggetti o di tipo di discorso tra i due brani. In 1Cor 11 si tratterebbe di un parlare orante e profetico (προσευχομενη η προφητευουσα) delle donne, in 1Cor 14 Paolo rimprovererebbe un parlare (λαλειν) disordinato e confusionario che reca disturbo all’assemblea e non la edifica. D’altra parte la stessa ingiunzione a tacere Paolo la usa nei confronti del glossologo se nell’assemblea non c’è chi possa interpretare il suo parlare in lingue con il Signore (14,28).
Un’altra ipotesi che va prendendo piede negli ultimi vent’anni è quella che in questi versetti problematici vede la citazione di uno o più slogan diffusi da chi nella comunità era ostile alla partecipazione attiva delle donne (gruppo che Paolo dunque non appoggerebbe). Senza escludere questa che è ritenuta da numerosi studiosi la migliore ipotesi, bisogna dire però che non c’è traccia, né nella grammatica e nemmeno nella sintassi, dell’inizio di un discorso diretto.
Se si volesse per forza sceglierne uno che esprima i principi ispiratori, al di là di questioni disciplinari contingenti, allora non c’è dubbio che occorra riferirsi a Gal 3,28 [in un contesto in cui si parla dell’essere “figli di Dio” proprio dei battezzati, rivestiti di Cristo e appartenenti a lui, cf. 3,26-29]:
ουκ ενι Ιουδαιος ουδε Ελλην
Non c’è giudeo né greco;
ουκ ενι δουλος ουδε ελευθερος
non c’è schiavo né libero
ουκ ενι αρσεν και θηλυ
non c’è maschio e femmina
παντες γαρ υμεις εις εστε εν Χριστω Ιησου
tutti voi infatti uno siete in Cristo Gesù.
In questo che è probabilmente un testo o inno battesimale diffuso presso le prime comunità cristiane, ci sono tre binomi formati da opposti che trovano in Cristo il proprio superamento: c’è la dicotomia che è insieme etnica, culturale e religiosa: giudeo / greco; quella sociale-classista: schiavo / libero; e infine la dicotomia sessuale maschio / femmina; da notare che la scelta di usare i due neutri αρσεν και θηλυ, cioè maschio e femmina, invece che uomo / donna sembrerebbe addirittura voler annullare la differenza che è insita nella natura stessa. In realtà dal contesto si evince che questo binomio vuole soprattutto sottolineare come l’essere in Cristo (attraverso la fede e il battesimo) è ora il criterio nuovo che informa i rapporti interpersonali e conferisce uguale dignità alle persone, indipendentemente da tutti i condizionamenti, anche quelli sessuali.
Queste categorie, assieme a quelle espresse dai primi due binomi, non possono più avere un influsso discriminante sulla persona. L’affermazione di Gal 3,28 è dunque molto forte, e il principio del superamento delle discriminazioni che viene propugnato costituisce indubbiamente uno dei fondamenti essenziali del cristianesimo: da questo punto non si può più tornare indietro.
Le lettere autentiche di Paolo contengono – specialmente nella loro parte finale – numerosi accenni a persone menzionate con il loro nome, spesso accompagnati da brevi titoli e osservazioni, che studiati singolarmente e nel loro contesto, si sono rivelati preziosi per ricostruire il quadro della situazione storica delle prime comunità cristiane, e in particolare il ruolo delle donne nel ministero apostolico.
Ad esempio, nella lettera ai Filippesi Paolo nomina due donne, Evodia e Sintiche, esortandole ad essere concordi nel Signore (4,2: παρακαλω το αυτο φρονειν εν κυριω), e prega un suo fedele compagno di aiutarle (a riconciliarsi), poiché esse hanno combattuto per il vangelo insieme con lui (αιτινες εν τω ευαγγελιω συνηθλησαν μοι), al pari di altri collaboratori (συνεργων) tra cui Clemente: “i loro nomi sono scritti nel libro della vita” (4,3).
Per queste donne l’aver lottato insieme all’apostolo per la diffusione del vangelo comporta in qualche modo l’aver esercitato almeno in parte lo stesso ministero dell’apostolo; inoltre le espressioni di ammirazione e il fatto che praticamente sono le uniche persone ad esser nominate – oltre a Clemente che è probabilmente un componente di quella chiesa – portano a dedurre che esse devono aver avuto un ruolo di primo piano nella conduzione di quella comunità. Qualcosa di simile si può supporre anche di Cloe (1Cor 1,11) e soprattutto della “sorella Apfia” (Απφια τη αδελφη), unico caso di una donna esplicitamente citata da Paolo tra i destinatari di una sua lettera, subito dopo la menzione di Filemone e prima di Archippo (Fm 2).
Ma è soprattutto nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani che abbondano i riferimenti a donne collaboratrici nell’apostolato, a cui Paolo rivolge saluti e apprezzamenti.
Vediamoli in sintesi:
In Rm 16,1-16 Paolo nomina ventinove persone, riportando il nome di ventisette di loro, tra cui otto donne (più due senza nome, la madre di Rufo e la sorella di Nereo; vv. 13.15).
La prima menzionata è Febe, detta “nostra sorella, che è diacono della chiesa di Cencre… patrona (προστατις) di molti e anche di me stesso” (vv. 1-2). La vedremo a parte.
Al v. 3 dice di salutare Prisca ed Aquila (suo marito). Prisca (o Priscilla), è identificata come collaboratrice (συνεργος);
al v. 6 saluta Maria “che si è data molto da fare per voi” (πολλα εκοπιασεν εις υμας);
al v. 7 chiede di salutare “Andronico e Giunia… eccellenti tra gli apostoli” (εισιν επισημοι εν τοις αποστολοις). Giunia non è un uomo come molti commentatori – specialmente nel passato – hanno sostenuto, bensì una donna, di loro Paolo afferma che sono suoi parenti, e diventati discepoli di Cristo prima di lui (προ εμου γεγοναν εν Χριστω).
Al v. 12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne che “si danno da fare per il Signore” (τας κοπιωσας εν κυριω); e “la carissima Perside”, anch’essa “si dà molto da fare per il Signore” (πολλα εκοπιασεν εν κυριω).
Al v. 13 saluta la madre di Rufo che è stata anche per Paolo una madre.
Al v. 15 si nomina infine Giulia e la sorella di Nereo.
Se si va a fare il conto di tutte le persone menzionate in 16,1-16, le donne sono circa un terzo degli uomini, e tuttavia le cose che si dicono di loro sono talmente rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle prime comunità cristiane (e non solo in quelle di matrice paolina, in quanto sappiamo che Paolo scrive ad una comunità non fondata da lui), in quanto collaboratrici nel ministero apostolico di Paolo, o in generale in quanto “si sono date da fare per il Signore”.
Rm 16 dunque, come ha affermato un commentatore, può davvero essere intesa come “la più gloriosa attestazione di onore per l’apostolato della donna nella chiesa primitiva”.
Per quanto riguarda Febe, ci fermiamo ad analizzare il testo più da vicino:
1Vi raccomando (συνιστημι) Febe nostra sorella (αδελφην),
che è anche diacono (διακονον) della chiesa che è a Cencre,
2affinché la accogliate nel Signore in maniera degna dei santi
e l’assistiate nelle cose di cui può aver bisogno.
Poiché anche lei è stata patrona (προστατις) di molti e anche di me stesso.
Paolo inizia la sezione finale della lettera ai Romani raccomandando Febe a quella comunità. Si tratta di una donna di Cencre – una delle due località portuali presso Corinto, situata nella parte orientale dell’istmo (sul lato occidentale c’era l’altro porto, quello di Lecheo) – e il fatto che viene nominata per prima fa ritenere che fosse lei l’incaricata di recapitare la lettera stessa. In realtà non conosciamo il motivo del suo viaggio a Roma; alcuni commentatori suppongono che abbia avuto da sistemare alcuni affari legati al suo lavoro.
Il verbo tipicamente paolino συνιστημι (raccomandare, dimostrare, consistere, esistere) è usato anche altrove per presentare e raccomandare un amico ad un altro.
Le credenziali di questa donna presentata da Paolo contengono tre titoli:
αδελφη/διακονος/προστατις.
Per quanto riguarda il primo, mentre il maschile “fratello” (αδελφος), quale appellativo di membri della stesso gruppo religioso, non è una caratteristica specifica cristiana, sembra invece che lo sia l’uso di sorella (αδελφη). Inoltre, il pronome possessivo “nostra” (ημων) è un’attestazione del fatto che era già comune il concetto di comunione e quindi di universalismo tra membri di chiese sparse nelle varie parti del mondo.
Febe è un diacono della chiesa di Cencre. Questo secondo titolo (διακονος) è stato oggetto di molte discussioni. Innanzitutto si tratta di un sostantivo che serve invariato sia al maschile che al femminile (perciò non è pienamente corretto tradurlo con “diaconessa”, come fanno alcune Bibbie); inoltre occorre evitare l’anacronismo di attribuire a questo termine il significato che “diaconessa” assumerà nei secoli successivi.
Nel nostro caso non è nemmeno sufficiente pensare ad un generico “servizio” (si sarebbe probabilmente usato il verbo “διακονεω”, come in Rm 15,25; o le si sarebbe attribuita una generica “διακονια”, come in 1Cor 16,15), invece bisogna tener presente che con questo termine Paolo solitamente designa se stesso o i suoi collaboratori nell’esercizio del ministero apostolico (cf. ad es.: 1Cor 3,5; 2Cor 3,1-11; Fil 1,1; cf. Rm 15,8: Cristo diacono dei circoncisi); e come per quelle ricorrenze si traduce nella maggior parte dei casi con “ministro”- a cui è legato un ruolo di responsabilità e autorità nella chiesa – anche qui coerentemente andrebbe tradotto e compreso allo stesso modo.
Naturalmente occorre tener presente che a quel tempo il ruolo e i compiti di tipo ministeriale-gerarchico abbinati ai singoli titoli sono in piena evoluzione e non hanno ancora raggiunto una sufficiente comune comprensione (una prima istituzionalizzazione la si fa normalmente risalire al tempo delle lettere pastorali; cf. 1Tm 3,1s; Tt 1,5s); quindi anche la portata di quel ministero designato attraverso la connotazione di diacono, in ogni caso dipendeva dai contesti locali e dalle necessità delle singole chiese.
Comunque sia, Febe rimane la prima donna diacono di cui si viene a conoscenza nella storia del cristianesimo.
L’ultimo titolo è un hapax del NT: προστατις è un deverbale da προιστημι, che al transitivo significa “porre come patrono, capo”; all’intransitivo, “porsi davanti (come difensore)”; nelle due ricorrenze paoline il verbo al participio (προισταμενος) indica senz’altro il ruolo di guida e presidenza (cf. Rm 12,8; 1Ts 5,12). Ma vediamo più in particolare:
l’equivalente maschile è προστατης, ben attestato nella letteratura ellenistica, per il ruolo di persona benestante e influente, protettore legale, patrono e leader di gruppi religiosi. Per il femminile, le meno numerose attestazioni in papiri e iscrizioni (del secondo e terzo secolo), lasciano intendere lo stesso significato del maschile. Nel nostro caso bisogna intendere dunque il senso di “donna posta sopra altri”, e normalmente andrebbe tradotto con “protettrice, patrona” o, in traduzione più moderna, “presidente”.
Occorre inoltre tener presente che, al contrario di quando si riteneva nel passato, il ritrovamento e lo studio recente di papiri e iscrizioni, fa registrare una discreta presenza di donne che detenevano ruoli da leader anche in gruppi religiosi.
Ora il fatto che Paolo affermi che Febe è stata patrona di molti e anche di lui stesso, lascia supporre che ella fosse benestante e altolocata socialmente. Probabilmente la sua casa era adatta ad ospitare la comunità cristiana di Cencre, della quale in quanto diacono era anche una leader. Inoltre nella sua generosità non mancava di offrire ospitalità e protezione ai missionari itineranti, come Paolo e collaboratori. Ciò che Paolo chiede dunque ai romani in termini di accoglienza e assistenza nei riguardi di Febe (16,2: ινα αυτην προσδεξησθε εν κυριω αξιως των αγιων και παραστητε αυτη εν ω αν υμων χρηζη πραγματι: “che l’accogliate nel Signore in maniera degna dei santi e l’assistiate nelle cose di cui può aver bisogno”) in qualche modo deve riflettere ciò che anche lei ha fatto (και γαρ αυτη προστατις πολλων εγενθη) nei confronti di fratelli e sorelle in Cristo, sia quelli appartenenti a quella comunità locale, che quelli di fuori che si trovavano a passare nella sua casa.
Insomma, i romani, nel ricevere e leggere la lettera di Paolo a loro destinata, si trovavano in presenza di una donna (probabilmente latrice dello scritto) di grande prestigio umano e cristiano, sorella nella fede, ministro della sua comunità di Cencre, benefattrice generosa e patrona per chiunque dei fratelli si fosse trovato a passare nella sua casa.
Lidia può ben essere un altro esempio di protettrice/patrona, anche se forse non così influente come Febe. Anche lei, ha accolto Paolo e i suoi collaboratori nella sua casa.
Ma prima di esaminare più da vicino il testo, è necessario spendere qualche parola sulla natura del libro che contiene l’episodio del suo incontro con Paolo, gli Atti degli Apostoli.
Sappiamo che l’autore – tradizionalmente identificato con il Luca collaboratore di Paolo (cf. Col 4,14; 2Tm 4,11; Fm 1,24) – ha concepito la sua opera in due parti: Vangelo e Atti; con il libro degli Atti ha l’intento di mostrare la continuità della storia della salvezza che, iniziata con il popolo d’Israele, ha avuto culmine in Gesù, centro del tempo (il Vangelo), e che ora continua nella chiesa per opera dello Spirito santo (Atti). Egli, come premette nel prologo al vangelo, è deciso a offrire un’opera fondata su ricerche accurate (Lc 1,3: παρηκολουθηκοτι ανωθεν πασιν ακριβως καθεζης “avendo indagato con acribia ogni cosa con ordine”), quindi su fatti reali di cui è venuto a conoscenza.
Arrivare a dire però, date queste premesse, che siamo di fronte ad un libro “storico” nel senso che diamo noi oggi correntemente a questo termine, sarebbe fuori della concezione che a quel tempo avevano della storia. L’autore degli Atti – pur basandosi nel complesso su fatti realmente accaduti e tramandati sia per iscritto che oralmente – rilegge questi avvenimenti in una prospettiva teologica: essendo il libro rivolto principalmente a chi è già credente, per rafforzare la sua fede, descrive l’opera dello Spirito santo nel tempo della chiesa, nella sua diffusione “fino agli estremi confini della terra” (cf. 1,8).
Per quando riguarda il nostro caso, nel racconto della prassi missionaria di Paolo, in fin dei conti è soprattutto il punto di vista lucano ad emergere e non tanto quello paolino.
E qui va accennato al recente cambiamento di opinione di alcuni studiosi su Luca come l’“evangelista dalla parte delle donne”, opinione altrimenti comune per essere tra gli scrittori sacri colui che dà più spazio alle figure femminili nella chiesa nascente, anche in contrasto con la mentalità dell’epoca; in realtà egli – pur attribuendo loro un ruolo fondamentale nella storia della salvezza (basta pensare ai brani mariani) – tenderebbe ad escluderle da ruoli di responsabilità e di direzione della comunità cristiana.
Di queste prospettive – oltre che dalla distanza temporale (almeno una generazione) che separa la stesura degli Atti dalle lettere paoline – occorre tenere conto nell’utilizzare gli Atti come fonte “storica” per la conoscenza di Paolo e della sua attività missionaria, anche in rapporto alle donne.
Scorrendo il cap. 16 – dove troviamo l’episodio di Lidia – abbiamo un saggio di come Luca
rilegge gli avvenimenti in una prospettiva teologica.
Ci troviamo nel cosiddetto “secondo viaggio missionario di Paolo” (in realtà è il primo che compie come “capo missione”), con lui si trova Sila (15,40); insieme hanno l’intento di andare a trovare i fratelli nelle città dove era già stata predicata la Parola (cf. 15,36); così da Antiochia attraversano la Siria e la Cilicia; a Listra prendono con sé Timoteo e attraversano la Frigia e la Galazia; di qui vogliono dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito non lo permise loro” (16,7); trovandosi nel porto di Troade, “durante la notte apparve a Paolo una visione” (16,9): un uomo macedone (ανηρ Μακεδων) che lo supplicava di andare da loro in Macedonia ad aiutarli. Il narratore conclude: “Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”; per lui il macedone era Dio, o meglio, Dio si era servito di questa visione per manifestare la sua chiamata. Al di là di come sono andate concretamente le cose, si vuole dire che Paolo andò in Macedonia sulla base di una chiamata di Dio, spinto dallo Spirito missionario.
A parte questo, va notato che proprio in questo brano la redazione passa bruscamente alla prima persona plurale: “subito cercammo” (16,10). È la prima delle tre cosiddette “sezioni noi” degli Atti (la seconda, in 20,5-15 + 21,1-18; la terza da 27,1 fino a 28,16) nelle quali il lettore non è messo in grado di identificare colui che ora si esprime includendosi nella narrazione.
Senza entrare nella complessa questione, possiamo limitarci a dire che, a differenza dall’autore del resto del libro, che si serve di questa sorta di “diari di viaggio”, probabilmente l’autore di queste sezioni è un testimone oculare accompagnatore di Paolo. Accettando invece l’ipotesi tradizionale – per la quale è lo stesso Luca a scrivere anche queste sezioni, magari utilizzando appunti scritti a quel tempo – bisognerebbe ammettere che a quel punto del viaggio, salpando da Troade verso la Macedonia (si passa dunque dall’Asia all’Europa), ai tre (Paolo, Sila e Timoteo) si era aggiunto anche Luca.
Ecco allora gli antefatti dell’incontro con Lidia. Passando per la Samotracia e Neapoli, il gruppo missionario giunge a Filippi, colonia romana. Dopo alcuni giorni – dice il narratore (16,13a) – “di sabato uscimmo fuori della porta [della città], lungo il fiume, dove ritenevamo fosse la preghiera” (τη τε ημερα των σαββατων εξηλθομεν εξω της πυλης παρα ποταμον ου ενομιζομεν προσευχην ειναι).
Già questi elementi indicano che nella città romana c’erano dei giudei o dei seguaci della religione giudaica (simpatizzanti, proseliti e timorati di Dio); e il fatto che cercassero un luogo un po’ in disparte dove fare la preghiera di sabato (vicino al fiume – il piccolo Gangite, a un paio di Km a ovest della città – probabilmente l’acqua serviva per il rituale delle abluzioni), lascia intendere che non c’era una sinagoga nella città. Per metonimia, προσευχη (preghiera) può indicare anche il luogo dove si svolgeva l’incontro di preghiera (cf. 16,16). Flavio Giuseppe annota che un decreto di Alicarnasso autorizzava i giudei a “fare le loro preghiere (προσευχας) sulla riva del mare, secondo l’uso dei loro padri” (Ant. XIV 10,23).
V. 13b: “Ci mettemmo a sedere e parlammo alle donne che vi erano radunate” (και καθισαντες ελαλουμεν ταις συνελθουσαις γυναιξιν). L’uso del verbo συνερχομαι (“convenire”, radunarsi) mette in evidenza che non si tratta di un incontro casuale, ma un convenire deliberato e comunitario (cf. Lc 5,15; At 2,6.11; 10,45; 1Cor 11,17-34; ecc.): queste donne si sono raccolte in assemblea per fare la preghiera, probabilmente hanno preso da sole l’iniziativa, senza il concorso di uomini (fatto unico in tutto il NT).
Ciò che è casuale è l’incontro con Paolo e i suoi compagni.
Le azioni del sedersi e iniziare a parlare (καθιζω e λαλεω), sono tipiche giudaiche del modo di comunicare un insegnamento, sia nelle sinagoghe che all’aperto (cf. Lc 4,20-21; 5,3; At 13,14-15; Mt 5,1-2; ecc.); l’essere radunati in un luogo con un intento religioso, seduti e parlare indica dunque un contesto di insegnamento, di interpretazione e di predicazione della Scrittura. L’imperfetto segnala un’azione continuativa e ripetuta, il plurale “parlavamo” indica che non è Paolo soltanto a prendere la parola, ma anche i suoi compagni; e c’è da immaginarsi che le donne non siano rimaste sempre in silenzio (come avrebbero potuto Paolo e compagni infatti rendersi conto che esse comprendevano la loro lingua e che erano interessate a quell’insegnamento?).
Il v. 14a ci presenta la figura principale della scena: “E una donna di nome Lidia, commerciante di porpora della città di Tiatira, timorata di Dio, stava ad ascoltare” (και τις γυνη ονοματι Λυδια πορφυροπωλις πολεως Θυατειρων σεβομενη τον θεον ηκουεν).
Il nome Lidia originariamente designava un abitante della regione omonima (colonia della Macedonia), ma almeno a partire da Orazio (Odi I, 8, 1) era già un nome proprio di persona. La donna era di Tiatira, città rinomata per la produzione della tinta di porpora. Il fatto che fosse venditrice (e forse anche fabbricante) “fuori piazza” di questo prezioso prodotto (che amavano sfoggiare nelle corti e tra le famiglie benestanti, cf. Lc 16,19), induce a pensare che Lidia sia stata una donna indipendente economicamente, con delle persone alle sue dipendenze e capace di gestire bene l’impresa commerciale.
Essa era una “timorata [o adoratrice] di Dio” (σεβομενη τον θεον). Di per sé l’espressione indica chi è devoto di Dio in senso generico; ma negli Atti indica sempre chi tra i pagani – uomo o donna – è seguace della religione dei giudei e orbita intorno alla sinagoga (i “proseliti” erano invece coloro che, provenendo dal paganesimo, erano divenuti pienamente giudei accettando la circoncisione). Secondo la narrazione degli Atti, è tra questi “timorati di Dio” che la predicazione di Paolo riscosse il maggior successo (At 13,43; 16;14; 17,4.17; 18,7; unica ricorrenza in cui si rivelano ostili a Paolo: At 13,50). A Tiatira c’era probabilmente un insediamento di giudei; è possibile che Lidia abbia conosciuto lì la religione giudaica e vi abbia aderito, divenendo così “adoratrice di Dio [dell’unico]”. Rimane ugualmente a livello di congettura se le donne che erano con lei al fiume per la preghiera fossero giudee o simpatizzanti come lei (e forse anche sue dipendenti nell’impresa commerciale?).
Al continuativo lalèin di Paolo e compagni, fa riscontro il continuativo akouein di Lidia (imperfetto, “stava ad ascoltare”), segno della sua predisposizione ad accogliere l’annuncio cristiano.
V. 14b: “Il Signore le aprì il cuore per accogliere le cose dette da Paolo” (ης ο κυριος διηνοιξεν την καρδιαν προσεχειν τοις λαλουμενοις υπο του Ραυλου). Ecco di nuovo la prospettiva teologica: è il Signore ad aprire il suo cuore alla predicazione di Paolo; solo il Signore è in grado di farlo; è significativo questo verbo tipicamente lucano, διανοιγω (Lc 2,23; 24,31s. 45; At 7,56; 17,3; unica altra ricorrenza: Mc 7,34), da leggere con lo stesso senso che si ritrova nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “si aprirono (διηνοιχθησαν) i loro occhi” (Lc 24,31); “Non ardeva forse il nostro cuore quando egli, lungo la via, ci parlava e ci spiegava (διηνοιγεν) le Scritture?” (24,32); “Allora aprì loro la mente all’ intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45). Specialmente quest’ultima frase sta in parallelo con la nostra:
At 16,14: ης ο κυριος διηνοιξεν την καρδιαν προσεχειν τοις λαλουμενοις υπο του Ραυλου
Lc 24,45: αυτων διηνοιχθην τον νουν του συνιεναι τας γραφας
In entrambi i casi è il Signore ad agire, egli apre il cuore o la mente, per accogliere le parole di Paolo o per comprendere le Scritture.
v. 15 “Dopo essere stata battezzata (lei) e la sua casa, ci invitò dicendo: «Se mi avete giudicato fedele al Signore, entrate a casa mia e restate(ci)». E ci costrinse.”
Il narratore, che risulta essere presente alla scena, a questo punto sintetizza e non aggiunge molti particolari; restano dunque aperte alcune domande: Lidia è stata battezzata subito, quel sabato lì al fiume, o ci sono state altre catechesi prima del battesimo?
Se facciamo riferimento a episodi simili (cf. il battesimo di Cornelio, cap. 10 o a quello dell’etiope eunuco, cap. 8,26-39) bisogna optare per un battesimo immediato; se così è stato, resta la difficoltà data dal fatto che insieme a lei viene battezzata “la sua casa” (di cui si deve quindi presupporre la presenza presso il fiume): con questo termine ovviamente è intesa tutta la cerchia di familiari, ma anche la servitù (se c’era) che apparteneva alla casa. Allo stesso tempo si deve dedurre che Lidia fungeva da capofamiglia (era vedova?).
Ma il narratore non ritiene importante fornire questi dettagli, a lui sta a cuore soprattutto mostrare come il Signore agisce attraverso la predicazione dei missionari per la diffusione della sua Parola “fino agli estremi confini”.
A questo punto l’adesione di fede di questa donna, riconosciuta da Paolo e collaboratori e confermata nel battesimo, trova anche una visibilità nel vissuto attraverso il gesto dell’ospitalità da lei generosamente offerta – anzi, quasi imposta ai missionari; e qui Paolo mostra di fare un’eccezione al suo principio di rinunciare al diritto di farsi mantenere dalle comunità.
Il verbo qui usato (παραβιαζομαι) letteralmente significa “costringere con la forza, imporre”: l’unica altra ricorrenza è significativo ritrovarla nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “essi lo costrinsero (παρεβιασαντο), dicendo: «Resta con noi, perché si fa sera ed il sole ormai tramonta». Ed egli entrò per rimanere con loro» (Lc 24,29).
Come emerge chiaramente, ci sono diversi paralleli tra i due racconti, che permettono di rintracciare la visione teologica che pervade il progetto Vangelo-Atti: l’azione di Cristo risorto continua nell’azione dei testimoni del risorto.
Ad essi – in questo caso Paolo e collaboratori – Lidia apre le porte della sua casa, così come il Signore aveva aperto il suo cuore alle parole di Paolo.
L’uomo macedone (ανηρ Μακεδων) della visione si è rivelato in realtà… una donna! Anzi, un gruppo di donne… una casa che, grazie all’adesione di fede di Lidia, va a costituire il nucleo iniziale di una comunità gloriosa, quella dei filippesi, una comunità che più delle altre darà a Paolo gioia e collaborazione. Inoltre Lidia resta la prima persona in Europa di cui veniamo a sapere che, ascoltando la predicazione dell’Apostolo, accoglie il vangelo e si fa battezzare.
Il battesimo di una donna – non in quanto moglie di qualcun’altro che si fa battezzare “con la sua casa” – è a sua volta la dimostrazione che si sono infrante le divisioni e discriminazioni che impedivano alle donne di entrare in una condizione di uguaglianza con gli uomini; il superamento della circoncisione – dagli ebrei ritenuta indispensabile per entrare a far parte del popolo dei salvati – attraverso il battesimo di tutti i credenti in Cristo, annullava non soltanto il “muro di divisione” tra giudei e non (cf. Ef 2,14), tra schiavi e liberi, ma anche quello della discriminazione in base al sesso. Difficilmente oggi possiamo immaginare l’impatto che questa “buona notizia-novità” deve aver avuto nella vita sociale e religiosa delle persone che a quel tempo abbracciarono la fede cristiana.
È valsa dunque la pena di seguire l’ispirazione divina di venire a Filippi: l’adesione alla fede di questa donna – che nell’ottica lucana ha significative analogie con i discepoli di Emmaus – la rende punto di riferimento per la nascente comunità, e la sua casa diviene chiesa domestica (16,40). La sua storia – di cui siamo venuti a conoscenza tramite il racconto degli Atti – negli intenti del narratore vuole essere anche un paradigma per tutte quelle donne che con il loro coraggio, la loro generosità e impegno missionario hanno reso possibile quella diffusione della Parola di Dio che ha fatto la chiesa.
Da questa breve indagine si può trarre un quadro per il quale è praticamente impossibile tacciare Paolo di misoginia o di discriminazione nei confronti della donna. I dati che riguardano la presenza e il ruolo delle donne nella chiesa delle origini, pur non essendo molto abbondanti, costituiscono una chiara attestazione dell’applicazione del principio fondamentale di uguaglianza nella dignità e nella responsabilità missionaria; questo lo si deduce non soltanto dalle affermazioni sulle donne che si trovano sparse in alcuni suoi scritti, ma soprattutto dalla sua prassi, così come emerge sia dalle lettere che dagli Atti degli Apostoli.
Rispetto all’ambiente e alle varie culture a lui contemporanee (greco-romana e giudaica) su questo punto Paolo non va annoverato tra i conservatori, ma tra gli innovatori coraggiosi: senza rischio di esagerare si può considerare Paolo il più grande araldo della nuova legge di libertà costituita dal Vangelo di Gesù Cristo, in cui è iscritto anche il paragrafo importante del pieno riconoscimento dei diritti alla donna, nella società e nella chiesa.
Un’interpretazione fondata sul pregiudizio di una mentalità maschilista e incapace di cogliere la portata liberatrice della Parola di Dio – e reiterata nel corso dei secoli – ha spinto tanti cristiani autorevoli a discriminare la donna nella famiglia e nella chiesa, causando direttamente la sua marginalizzazione nella società di matrice cristiana.
CONCLUSIONE
Alla luce del percorso fatto insieme di queste poche pagine, possiamo attestare che la scelta di alcune realtà cristiane di ordinare anche le donne al Sacro Ministero non è affatto infondata.
Auspico che anche le realtà più conservatrici e legate ad una Tradizione vincolata da un’antropologia prettamente maschilista, inizino seriamente a non aver paura nel rispondere alle esigenze del tempo presente, soprattutto per camminare a passo con la ricerca esegetica contemporanea e le rivelazioni che la Storia, attraverso le nuove scoperte del mondo antico, ci insegna.
Per questo breve elaborato ci siamo serviti di alcune fonti di Benedetta Zorzi, Teodora Tosatti e Giorgio Otranto