Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni (Mc 3,13-15).

La vocazione: una risposta di Dio alle preghiere del popolo.

Abitualmente quando parliamo di vocazione nei Vangeli intendiamo quella degli apostoli e dei discepoli di Gesù. Non sempre pensiamo a come questa vocazione sia il secondo anello di una catena che ha inizio con Gesù stesso. Prima di chiamare i suoi, infatti, Gesù ricevette, a sua volta, una chiamata, accolse la sua, di ‘vocazione’. 

Essa si rivelava attraverso il Battesimo di Giovanni e le tentazioni nel deserto. “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”  (Mt 3,17). Così dice la voce che esce dal cielo quando Gesù è battezzato. Era una ‘vocazione’, era un destino, una missione: quella di abbracciare il Suo essere Figlio di Dio.

 Per accoglierla, Gesù dovette dare una risposta forte, decisa, coraggiosa. Dovette affrontare il Tentatore: “Se sei Figlio di Dio dì che questi sassi diventino pane” lo insidiava la voce del sospetto e del dubbio. “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,3-4) rispondeva Gesù con l’intelligenza della sua vocazione, cioè la decisione di essere fedele a quella sua altra, diversa, identità: egli non è più soltanto Gesù il Nazareno, ma è anche il Figlio di Dio. 

Tanto è vero che sa, che sceglie, che vuole vivere non solo di pane, ma di Parola di Dio. Cioè di libertà e di relazione. E questa Parola diventerà pane nella sua stessa bocca: la sua vocazione si tradurrà in una precisa missione: “Mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, ad annunciare la libertà ai prigionieri e ai ciechi la vista (…) Per proclamare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18). La vocazione diventa opera di Amore e di riscatto, un abbraccio al mondo.   

Ma la stessa ‘vocazione’ del Figlio di Dio possiede un antefatto, una lunga preparazione. Infatti, la vocazione di Gesù si radica  nella ‘vocazione’di Maria ed anche di Giuseppe, suo padre putativo. Essi furono chiamati a seguire il disegno di Dio che li voleva genitori del Figlio di Dio. Ciò mostra che non esiste da nessuna parte una vocazione come realtà isolata, ma che è frutto di un incontro, di una esperienza di vita aperta, esposta, condivisa. 

Come ogni storia di amore la vocazione è un eccomi, un “sono qui”, un voglio mettermi in gioco anch’io. Penetrando nella memoria della vocazione arriviamo, così, al suo anello primordiale e misterioso: quello dove si trova la vocazione stessa di Dio. La Sua chiamata ad ascoltare il grido dell’uomo nel dolore, nella schiavitù, nell’ingiustizia. È l’uomo, infatti, a chiamare Dio, a gridare per primo verso il cielo. Quando nessuno sulla terra lo ascolta. Allora ci fu un Dio che aprì il Suo orecchio, che ascoltò la voce e scelse di coinvolgersi, disse di sì e si abbassò e scese e sposò la causa di Israele. Tanto rispose a quella vocazione che per potervi assolvere del tutto si fece, infine, carne, corpo, portando su di sé le tracce di fragilità, la debolezza, l’impotenza, della sua creatura.

La vocazione come incontro con l’uomo: “Erano pescatori”

“Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano, infatti, pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono” (Mc 1,16-18).

Il quadro che presenta la chiamata dei primi quattro discepoli in Marco è fonte di spunti interessanti di riflessione. Al di là di un’apparente e superficiale visione romantica, innanzitutto colpisce l’ambiente profano in cui essa avviene e il suo “ambiente ideale”. Gesù si spinge nei luoghi del lavoro e della più ordinaria umanità. 

Se Simone e suo fratello stavano, dunque, “gettando le reti”, vuol dire che la notte era inoltrata. E questa è un’altra stranezza, che fa pensare che  Gesù dovesse esserci andato apposta a quell’ora ed in quel luogo . La chiamata dei suoi discepoli, la loro vocazione è un autentico “lavoro” per Gesù… E se è vero che Lui è il Figlio di Dio, allora, questo Dio è Qualcuno che si scomoda, che esce dai suoi ambienti sacri e dorati e si porta in quelli maleodoranti e impuri dei porti di mare. 

Non era certo usuale che la gente passasse per caso a quelle ore della notte là dove i pescatori armeggiavano con le loro reti. Gesù ci era andato con uno scopo preciso. Questa uscita del Figlio di Dio nei luoghi della umanità “profonda” è un fatto importante.

La vocazione come rivelazione: I racconti evangelici della chiamata e della risposta

“Andando un poco oltre Gesù vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, mentre rassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono” (Mc 1,19-20). 

Che cos’è la vocazione e come avviene la “chiamata”? I racconti dei Vangeli si accomunano a quelli dell’intera Bibbia nella dinamica e negli elementi che guidano una chiamata. Essa è composta sempre da due tempi: il primo è quello dell’inizio, dell’impatto, dell’incontro. Qualcuno si presenta, irrompe nella vita di una persona. Si tratta di Dio o di Gesù, come nel caso dei figli di Zebedeo. Questi si mostra come persona concreta –  Gesù, ad esempio – oppure come una visione di Dio (cfr. Is 6,1); o come un angelo del Signore in una fiamma di fuoco (a Mosè in Es 3,2),  semplicemente come voce di Dio (ad Abramo in Gen 12,1ss.) o come parola (a Geremia in Ger 4,ss.);  e ancora come una luce accecante che fa cadere Paolo da cavallo (cfr. At 9; ecc.). 

Si tratta di momenti speciali e di fatti il più delle volte irruenti e schiaccianti, che non lasciano troppo spazio alla titubanza nella risposta e nell’adesione. In tutti i casi citati  a questo primo momento della chiamata di Dio o di Gesù segue, infatti, non soltanto una risposta positiva, ma anche un autentico, netto cambiamento nella vita di chi resta coinvolto. 

Ma tutti i racconti fanno, altresì, capire anche chiaramente che la chiamata non è davvero così lapidaria e chiara e neppure la risposta: e qui viene il secondo tempo della vocazione, quello che accompagna tutta la vita dei chiamati, dei profeti e degli apostoli. Nessuno di loro considera e vive la sua vocazione come un possesso certo, come una cosa ormai scontata, compresa fino in fondo e “gestibile” senza più problemi o sorprese.

Prendiamo Mosè: per ben cinque volte egli cerca di resistere alla chiamata di Dio, opponendovi problemi e inadeguatezze di ogni sorta. Citiamo alcune delle sue obiezioni: “Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?” (Es 3,11); “Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: non ti è apparso il Signore” (Es 4,1); “Mio Signore, io non sono un buon parlatore (ma sono impaccato di bocca e di lingua” (Es 4,10). E questo non è che l’inizio! Nel bel mezzo del cammino dell’Esodo, alle pendici del Sinai, Mosè tornerà a mettere in crisi la sua chiamata, tentato di tirarsi fuori da essa: “Cancella anche ma dal libro che hai scritto” (Es 32,32).

La vocazione appare nella storia di Mosè come una dinamica sempre precaria; ogni giorno la chiamata assume nuove esigenze e nuovi aspetti, per cui la risposta deve essere rinnovata ad ogni occasione.  Questo perché la vocazione è un patto di amore, una alleanza di fedeltà, che esige un coinvolgimento affettivo, esistenziale,  morale e perfino fisico. Un legame tanto compromettente, quanto libero e incondizionato. 

La chiamata pone dinanzi ad una scelta che è addirittura quella di una identità. Questa era una sua personale e privata identità, peraltro facile e vantaggiosa, dato che era stato adottato dalla figlia di Faraone. Ma sceglie quella di essere ebreo, identità molto più scomoda e gravosa, in quel preciso contesto, da sembrare assurda, dal punto di vista umano… ciò perché Dio lo chiama a rispondere con Lui del “grido del suo popolo in Egitto”, a farsi partecipe della sua stessa vocazione.

“Il Signore disse: ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze (…). Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele (…) ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal Faraone; fa uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti” (Es 3,7ss.).  

Ogni vocazione nasce come scelta di diventare – o riconoscersi! – identità condivisa con quella di Dio! Essa porta con sé la scelta di essere parte del mondo dei poveri, degli schiavi e dei sofferenti. Nessuna vocazione biblica e cristiana può prescindere da questa decisione. La vocazione è semplicemente una risposta al grido del mondo sommerso che è impastato del grido stesso di Dio.  Quello stesso grido che Gesù leverà sulla Croce, dopo aver detto “Ho sete” e dopo aver denunciato l’angoscia dell’abbandono: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. 

Anche Giacomo e Giovanni – come Mosè – potevano restare imprenditori ittici, non mancavano di una identità. Ma la chiamata di Dio li pone dinanzi ad una scelta: vuoi abbracciare un’altra identità?  “Vi farò pescatori di uomini” propone Gesù ai pescatori di pesce. Come a dire: una sola identità vi farebbe restare chiusi alle acque di questo piccolo Mar di Galilea, mentre l’abbraccio a tutte le identità degli uomini vi permetterà di diventare una barca universale, una rete di salvezza sconfinata. Il vostro terreno identitario non sarà più il chiuso lago di Tiberiade, ma il vasto Mar Mediterraneo, mare aperto al bacio di rive, note ed ignote, di lingue familiari e straniere e orientato ai confini del mondo. Questa chiamata esige una risposta che sia il progresso verso una terra di mezzo, una identità di comunione: niente altro che la parola del Vangelo.   

La risposta, poi, non è certo teorica o ideale, ma qualcosa di molto concreto e fattivo. La scelta porta con sé l’azione quotidiana, la presa di posizione chiara e coraggiosa. Spesso diventa un signum contraddictionis e allora occorre trovare molta forza e soprattutto rivangare le ragioni della risposta alla chiamata. La Bibbia non manca di raccontare esperienze del genere. Prendiamo Geremia, ad esempio. Egli soffre la persecuzione a causa della lealtà ed autenticità della sua vocazione. Gli abitanti di Gerusalemme, ma anche i suoi parenti di Anatot, non possono soffrire la sua parola. Eppure l’ha ricevuta da Dio stesso, è stato Lui a mettergliela in bocca: “Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15,16).

Ma accade che quella parola che Dio gli ha consegnato, alla cui profezia Egli stesso l’ha chiamato, non sia gradita a coloro per i quali è stata data. Per la cui salvezza è stata data. Geremia subirà la persecuzione e perfino la condanna  a morte dal popolo e dai re di Giuda, proprio a causa della sua vocazione. La stessa sorte è segnata per i discepoli di Gesù, cui Egli stesso annuncia una strana beatitudine: “Beati voi quando vi perseguiteranno, vi insulteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia…rallegratevi ed esultate (…) così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi” (Mt 5,11). È il prezzo da pagare per essere sale e lievito della terra. 

La vocazione non ha come effetto la presunzione di essere garantiti da Dio, né l’arroganza di pensare di essere da Lui approvati, protetti, legittimati, custoditi. Non è così. Rispondere alla chiamata di Dio vuol dire esporsi ad ogni rischio, non escluso quello dell’essere dei “servi inutili”. Nessuno mai si vanterà della propria vocazione; ne sarà piuttosto umile servo, seduto agli ultimi posti della mensa dello Sposo. 

Paolo, il grande Apostolo del Vangelo del Cristo ne sarà una icona perfetta: “Ultimo tra tutti apparve anche a me, come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo” (1Cor 15,8-9). E ancora Paolo interpreta l’autenticità della vocazione secondo una logica rovesciata, rispetto non solo a quella del mondo, ma  anche a quella dei ministri di Cristo: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte” (2Cor 11,23).   

Una decisione speciale

La vocazione è, dunque, non una condizione speciale e privilegiata di vita, quanto un’esperienza del tutto speciale. Chiede una decisione ed una sensibilità, una cura, un’intelligenza ed una volontà molto speciali.

La vocazione al Vangelo esige un grande impegno di vita, intesa come capacità di riflessione, di comprensione, di intuizione, di conoscenza. Chiede una profondità, un tempo di silenzio, una deontologia nei rapporti con le cose e le persone. Coinvolgersi con la Parola  del Vangelo vuol dire iniziare e condurre per sempre un percorso dentro e fuori se stessi. Camminare lentamente verso se stessi, incontrare il proprio cuore. Vincere ogni giorno la paura, attraversandola. Vincere la pigrizia, la banalità del rimandare a domani. Esplorare quella parte che non si vede e che resta avvolta sempre nel mistero. Osare di vedere ciò che non si vede.  Guardare al buio. Confessare la Presenza di Qualcuno che sfugge; una trascendenza che non potrà mai essere ridotto a superficie. Un Verbo che si fa carne e continua ad esser Verbo mentre si fa carne. Mai si cristallizza in forme statiche, definite, doogmatizzate. 

PERTANTO, SE SEI UN UOMO O UNA DONNA IN ASCOLTO E TI SENTI CHIAMATO AL SACERDOZIO O ALLA VITA CONSACRATA, NON ESITARE A CONTATTARCI.

Di seguito troverai il nostro percorso formativo:

Il piano formativo prevede una duplice formazione:

1. Teologica e didattica

2. Morale, sociale e pastorale

La formazione morale, sociale e pastorale si svolge attraverso incontri mensili che si chiamano weekend vocazionale. In questi ritiri, i candidati fanno esperienza di vita comunitaria con il vescovo. Pregano insieme la liturgia delle ore, l’adorazione eucaristica e soprattutto celebrano l’eucaristia, centro e culmine di tutta la vita della chiesa.

Durante i ritiri mensili vengono affrontate le questioni morali e le posizioni della chiesa su questi argomenti. Si fa esperienza pastorale nella comunità eucaristica e si capisce meglio quale è la peculiarità del servizio nella nostra chiesa perchè si incontrano le persone reali con i loro problemi e le situazioni reali.

In questo periodo ogni candidato deve cominciare un piccolo ministero secondo il proprio grado e soprattutto deve sviluppare un progetto ministeriale affinchè il suo ministero sia reale e possa unire in sintonia eucaristia e servizio.

Questo cammino spirituale sarà cesellato da alcuni momenti fondamentali e importantissimi:

1. Compilazione della domanda di ammissione al piano formativo. Passo base e fondamentale.

2. Ammissione al piano formativo e vestizione dell’abito talare.

3. Conferimento del ministero del lettorato.

4. Conferimento del ministero dell’accolitato.

5. Ordinazione diaconale e inizio del ministero.

6. Ordinazione presbiterale.

Formazione teologica e spirituale

Ogni candidato comincia il suo cammino formativo a partire dallo studio del credo e della dottrina della chiesa.

Il candidato affronterà lo studio introduttivo al nuovo testamento con esegesi del vangelo di Marco.

Corpo lucano e giovanneo.

Altra tappa importante e fondamentale nel piano formativo è la lettura meditata e lo studio dell’Antico Testamento con particolare attenzione al libro dell’esodo.

Entro il sesto mese il candidato dovrà avere buone conoscenze della Sacra Scrittura per cominciare lo studio delle discipline teologiche.

Prima del conferimento di ogni ministero il candidato dovrà avere conoscenza di tutto quello che significa e comporta il ministero che sta per ricevere

In questo periodo è necessario anche uno studio del movimento cattolico indipendente e della storia della chiesa antica, medievale, moderna e contemporanea con i concili e i pronunciamenti riguardanti il credo.

Dopo l’ordinazione diaconale al candidato verrà richiesto di approfondire lo studio delle discipline teologiche trinitaria, cristologia, teologia fondamentale, antropologia teologica.

Ogni candidato deve ovviamente avere nel suo bagaglio culturale una conoscenza delle scienze umane e una adeguata coscienza sociale e politica. La chiesa è in prima linea nella difesa dei diritti umani inalienabili e dei diritti civili per tanto i nostri ministri ordinati non possono non avere una adeguata preparazione in merito e ovviamente una ministerialità coerente con gli insegnamenti della chiesa a tal riguardo.

Particolare attenzione sarà data dal vescovo allo studio della mariologia e la sacra liturgia, in modo che i candidati non dovranno sostenere l’errore di una pietà mariana o in grado di esercitare il ministero della leadership e la presidenza  della divina liturgia.

In fine, ma molto importante per i candidati, è che essi abbiano profonda conoscenza della teologia morale della chiesa  e della sua dottrina sociale.

Il piano formativo è personalizzato. I tempi non possono e non devono essere standard per tutti i candidati, dai quali dipende il cammino stesso in funzione dell’impegno e della serietà con cui viene affrontato e anche dalla capacità di portare avanti la progettualità in campo ministeriale, sociale ed ecclesiale. Il piano formativo dipende anche dal background e dal bagaglio previo di esperienza e formazione teologica con cui il candidato si presenta alla chiesa al momento della formalizzazione della richiesta di ammissione.